Intervista a Lorenzo Cappannari, manager con una lunga esperienza in Luxottica. Una carriera importante che spazia tra diversi incarichi internazionali e tanti ruoli di prestigio legati a diversi ambiti di azione. Siamo andati a trovarlo per ascoltare la sua visione di un settore in continua evoluzione dove l’Italia da anni è leader incontrastata.
Ciao Lorenzo, nel 2008, il tuo approdo nell’azienda italiana leader mondiale dell’eyewear. In questo settore, ai primi 5 posti in classifica troviamo 4 realtà italiane. Qual è il fattore che, secondo te, rende l’Italia così protagonista?
L’Italia è un paese incredibile per quanto riguarda la manifattura di qualità: forse non tutti sanno che gran parte dei marchi di lusso europei è da noi che producono una buona parte dei prodotti più ricercati e di valore aggiunto. Quello che è successo nell’occhialeria è stato un piccolo miracolo: siamo riusciti a costruire un distretto industriale solido, unito a un business model di successo (principalmente licensing), con capitali freschi e quasi tutti italiani (anche se non siamo mai stati leader nell’ambito finanziario), e soprattutto una strategia di marketing incredibilmente efficace. L’occhiale è quindi uno dei pochi settori dove l’Italia è stata in grado di alzare la testa dalla catena produttiva e imporsi come vero player globale a 360 gradi.
Parlando di marketing, in questo settore così affollato di brand, qual è la chiave per trovare una identità riconoscibile? Conta di più il design, la comunicazione, la presenza sul punto vendita…?
Come sempre la soluzione di successo è un mix di più fattori. La giusta comunicazione ovviamente è fondamentale, in un mondo sempre più affollato di brand essere visibili e riconoscibili è il primo passo per giocare la partita. Ma ovviamente non è sufficiente: il design di un occhiale di successo è un lavoro estremamente complesso, un delicato mix tra indossabilità e componenti estetiche/fashion che non è sempre facile trovare. Anche trovare il giusto prezzo a seconda del posizionamento scelto non è semplice; cosa che poi viaggia di pari passo con la strategia distributiva che si decide di intraprendere, quali punti vendita selezionare, puntare sull’e-commerce o no, e via dicendo.
Negli ultimi anni il mondo dell’eyewear ha dato vita a campagne irriverenti e di grande successo – pensiamo ad esempio a Never Hide – dove l’oggetto occhiale viene quasi in secondo piano rispetto al concept. Qual è il pensiero che c’è dietro la scelta di una comunicazione di questo tipo?
Il caso Ray-Ban è un caso di successo che molto probabilmente rimarrà nei manuali di marketing degli anni a venire: la decisione di andare verso una affermazione radicale del payoff, a volte a discapito (nel peso del messaggio intendo) del prodotto e del brand stesso, è stata una scelta radicale, azzardata, ma che ha pagato. Ray-Ban urla a gran voce il suo posizionamento, la scelta del suo target ideale: ne aveva bisogno se consideriamo la storia incredibilmente lunga del brand e la necessità di riposizionarlo in maniera chiara dopo la crisi che stava vivendo negli anni novanta. Un lavoro da manuale.
Nel tuo percorso, hai fatto anche diverse esperienze all’estero. Qual è stato l’aspetto più interessante di lavorare in un mercato emergente?
Lavorare all’estero è un’esperienza incredibilmente arricchente, e allo stesso tempo complessa: oltre ai chiari vantaggi di “apertura mentale” (che chiunque abbia viaggiato almeno un po’ conosce bene), si porta dietro una crescita professionale enorme. Lavorare con culture completamente differenti (a volte difficili da interpretare), business practice nuove e a volte sfidanti, è un’esperienza che reputo fondamentale nella carriera di ogni manager. Farlo in un mercato emergente rende tutto ancora più divertente, in quanto la distanza culturale e le opportunità di mercato aumentano esponenzialmente. Consigliatissimo.
Andando a curiosare sul tuo profilo LinkedIn, un tuo ex collega ti ha definito “visionario”. Ci puoi raccontare un episodio in cui hai anticipato i tempi?
Ahahaha. Ringrazio il mio ex collega ma non credo di essere davvero un visionario: quello è un termine che lascio a Steve Jobs e pochi altri. Del Vecchio (patron di Luxottica, NdR) è un visionario, se vogliamo restare nel perimetro di casa nostra, o per lo meno lo è stato più volte in passato. Diciamo che mi piace analizzare la realtà sgombro da preconcetti, e a volte un po’ “out of the box” – cosa che va tanto di moda oggi nei libri di management, ma che purtroppo molto spesso non viene applicata.
Le statistiche parlano di un settore dell’eyewear in costante crescita. L’e-commerce è un fattore trainante? Qual è la tua visione del futuro?
L’E-commerce è e rimarrà un cavallo vincente, ma sicuramente non il solo. Credo che i vari visionari, per restare in tema, che avevano previsto la fine del Brick’n’Mortar abbiano dovuto ricredersi: il negozio fisico rimarrà, soprattutto in un settore dove la prova del prodotto è così importante. Sicuramente la realtà virtuale cambierà le regole del gioco in questo e in altri campi dello shopping online, ma per ora siamo ancora abbastanza lontani dall’implementazione su larga scala a livello domestico, quindi è ancora presto per fare previsioni sensate.
In questi anni hai spaziato tra ruoli diversi e paesi diversi. Qual è l’esperienza che più ti è rimasta nel cuore?
La mia ultima esperienza come direttore generale Ray-Ban per il Messico e l’America Latina è stata sicuramente l’esperienza che più mi ha segnato a livello personale e professionale. Il coronamento di quasi quindici anni di lavoro tra varie aziende, posizioni e geografie: una ciliegina sulla torta che mi ha fatto anche rendere conto di come il mio percorso professionale da corporation fosse terminato. Ora è iniziato un nuovo capitolo, quello dell’imprenditoria; una nuova sfida, difficile, complessa, emozionante… ma si sa: quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.