Lavoro e disabilità: verso un futuro più inclusivo
Intervista a Giuseppe Flore, che ci parla, in perfetto stile inJob “senza giri di parole”, della sua disabilità e del suo ingresso nel mondo del lavoro
Il 3 dicembre è la Giornata Internazionale delle persone con disabilità.
Questa giornata è un’occasione: un’occasione per affacciarci su un mondo che non tutti conoscono e che troppo spesso viene trascurato.
In quest’intervista, diretta e sincera, Giuseppe Flore ci parla apertamente della sua disabilità e porta la sua testimonianza a tutti i ragazzi come lui che stanno lavorando o che vorrebbero affacciarsi al mondo del lavoro.
Ma non solo: le sue parole sono essenziali per tutti.
Perché, se davvero vogliamo dare forma ad una società più inclusiva, dobbiamo iniziare a prestare reale attenzione a quel 15% della popolazione mondiale che deve affrontare nel corso della vita discriminazioni ed ostacoli che rendono difficile la partecipazione attiva al lavoro e alla società.
Giuseppe, presentati: chi sei e qual è il tuo percorso?
Sono Giuseppe Flore e ho 32 anni. Lavoro in inJob dal 2015; ho iniziato con un periodo di formazione, poi ho svolto uno stage e infine sono stato inserito – prima a tempo determinato e poi a tempo indeterminato – all’interno dell’ufficio Facilities. Il compito del nostro ufficio è di ottimizzare la gestione di tutte le sedi di inJob. Le novità sono sempre dietro l’angolo e questa è una cosa che mi piace molto del mio lavoro: sono felice di avere continuamente nuovi stimoli per migliorare sempre.
Mi definisco un disabile atipico: sono molto diretto e il mio pensiero riguardo alla disabilità è fuori dagli schemi tradizionali.
Cosa intendi?
La disabilità non va mai messa davanti alla persona: credo fermamente che piangersi addosso e concentrarsi solo sui problemi non serva a nulla.
I miei genitori mi raccontano che, da piccolo, sono stato tanto tempo in incubatrice. Successivamente, tornato a casa, piangevo molto raramente perché ero abituato a stare da solo. Questa tendenza ad adattarmi in autonomia me la sono portata avanti, forse anche inconsciamente: tendo ad “ottimizzare” la mia disabilità. Non penso di essere sfortunato, anche perché focalizzarsi sui problemi significa mettere da parte la vita.
Ovviamente, in questo percorso, il supporto della famiglia è determinante; ma lo è anche avere un carattere che dice agli altri: “qui ci arrivo da solo!”. Un guscio protettivo troppo rigido ti impedisce di capire il mondo esterno.
Chiaramente, ogni disabilità è diversa; io, ad esempio, indosso dei tutori che mi aiutano a camminare. Posso affermare di aver costruito la disabilità sulla mia persona, e mi sento sempre in continuo miglioramento. Sono curioso, ho voglia di provare, sperimentare, di migliorare la mia condizione e il mio rapporto con gli altri.
Io sono sempre me stesso, senza forzare nulla. Ho fatto un percorso per conoscere i miei limiti; anche se non mi piace mostrarli agli altri, io ne sono consapevole – perché se non mi conosco io in primis, gli altri non possono capire nulla di me.
Sono caduto tante volte e mi sono sempre rialzato, con aiuto o senza.
Indispensabile è avere pazienza: pazienza nell’accettare che ci sono cose che non posso fare, pazienza per affrontare le continue visite mediche, pazienza per affrontare le difficoltà di tutti i giorni.
Cosa consigli ad un giovane disabile che vuole iniziare a lavorare?
È importante far sapere al datore di lavoro la propria percentuale di disabilità: a livello di legge, ogni azienda deve inserire dei disabili nel proprio organico a seconda del numero di dipendenti. Per fare questo riceve degli incentivi, quindi non abbiate paura a dichiarare la vostra disabilità. Non è qualcosa da scrivere in piccolo nel Curriculum: al contrario, mettetela in evidenza! È un vantaggio per voi e per chi vi assume.
Anche chi non ha disabilità a volte si sente osservato, diverso, inadeguato. Figuratevi chi ha una disabilità visibile! La società contribuisce a creare la sensazione di essere sbagliati, fuori dal coro.
È un atteggiamento che parte dalle piccole cose, a cambiare dev’essere il modo di pensare e di rapportarsi agli altri.
Consiglio di non vergognarsi e di usufruire di tutti gli aiuti che la legge prevede. Molti sono talmente chiusi in sé stessi che nemmeno si informano sulle opportunità esistenti ed attive, e purtroppo è un atteggiamento che spesso nasce a livello familiare, dove si tende ad arrangiarsi e a rimanere isolati, senza mai uscire dal proprio guscio.
A livello lavorativo poi è importante farsi conoscere per come si è e dimostrare i propri punti di forza, dimostrando di essere davvero utili con le proprie abilità uniche.
E ad un datore di lavoro?
Di fare un passo oltre alle mere logiche del profitto e dei ragionamenti come “Ma che cosa posso far fare ad un disabile?”
Oltre agli incentivi ricevuti, bisogna tenere conto di una sfera molto più ampia: stai facendo entrare nella tua organizzazione una persona che ti può arricchire sul piano personale, che può migliorare l’intero ambiente lavorativo e dare un contributo unico.
Se si guarda alla persona solo come “un disabile”, attraverso un velo di pregiudizi, non la si conoscerà mai davvero.
Ci fai un esempio concreto di un cambiamento facile da attuare?
Certo. Quando un bambino chiede: “Cos’ha quel signore? Perché cammina così?”
Non rispondetegli: “Shh, che ti sente!”. Questo non fa che aumentare la distanza sociale ed incrementare dubbi infondati.
Non c’è nulla di male, invece, ad incoraggiare a fare delle domande: quando un bambino mi chiede perché cammino così, sono ben felice di mostrargli i miei tutori e spiegargli a cosa servono.
Fa tutta la differenza del mondo, perché quel bambino diventerà un adulto consapevole che replicherà i modelli positivi che gli sono stati insegnati.
La società ha problemi oggettivi molto più gravi di accogliere chi ha una disabilità: sono tutti ostacoli che continuiamo a costruire senza motivo. E le persone più fragili, a causa di questo, si chiudono in sé stesse.
Bisogna educare alla diversità, di qualsiasi tipo, per vivere la vita senza essere giudicati.
Un’altra cosa: smettiamola di trattare le persone disabili come se fossero dei bambini, senza mai fargli notare quando sbagliano, senza essere diretti e sinceri.
Non serve a nulla mettere un velo di pietà fra noi e gli altri, perché in questo modo non si creeranno mai dei rapporti autentici.